In Europa, oltre 11 milioni di ragazzi e ragazze soffrono di disturbi psichici. Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani tra i 15 e i 19 anni (Unicef. The State of Children in the European Union 2024), mentre in Italia l’uso di psicofarmaci tra gli adolescenti è cresciuto in modo preoccupante, toccando l’11,4% in Piemonte nel 2022 (IRES Piemonte. Relazione annuale 2024). Un quadro che restituisce l’immagine di una generazione in difficoltà, spesso silenziosa, che chiede ascolto.
Tra le possibili soluzioni per rispondere a questa emergenza, arriva la proposta di Nuove F-orme – Relazioni che curano, il progetto che agisce prima che il disagio diventi disturbo coinvolgendo in prima persona i ragazzi, ma anche la scuola, le famiglie e i servizi sanitari. Il cuore della proposta è lavorare sulla comunità educante come ambiente trasformativo: docenti, educatori, neuropsichiatri, pedagogisti e peer educator uniscono competenze e sguardi per trasformare la fragilità in una risorsa, coltivando nuove modalità di relazione in classe.
Capofila del progetto sostenuto da Fondazione CRT è Eclectica+ Impresa Sociale, che insieme a Città Metropolitana di Torino, Stranaidea, Cooperativa Mirafiori e S.C. Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Regina Margherita ha costruito percorsi formativi, supervisioni specialistiche e, soprattutto, il kit didattico sull’antifragilità Mezzo Pieno.
Obiettivo del kit, co-progettato insieme agli studenti attraverso la peer education, rappresenta un primo strumento replicabile per affrontare i segnali di disagio in modo creativo, ludico e condiviso.
In questa intervista approfondiamo la genesi del progetto, le sue metodologie e i suoi primi risultati insieme a Luisa Pennisi della Direzione Istruzione e sviluppo sociale della Città Metropolitana di Torino e tra le protagoniste del percorso che ha portato alla nascita di Nuove F-orme.
Come nasce il progetto “Nuove F-orme: Relazioni che curano” e a quali esigenze ha cercato di rispondere?
Il progetto Nuove F-Orme si pone in continuità con Oltre la soglia, dedicato al ritiro sociale.
La prima esigenza è stata quella di ampliare i destinatari, per dare una risposta immediata alla richiesta di aiuto da parte delle scuole: l’aumento dei ricoveri ospedalieri dovuti a malesseri mentali – come tentativi di suicidio o disturbi del comportamento alimentare – si ripercuote infatti in modo diretto sull’ambiente scolastico. Gli studenti e le studentesse, dopo un ricovero, nel momento del reinserimento in classe – sia la precedente che una nuova – hanno bisogno di un supporto specialistico, mirato e competente, che possa aiutare anche i docenti a entrare in rete con gli altri professionisti della salute mentale.
La seconda istanza a cui il progetto ha risposto è quella della prevenzione e sensibilizzazione, attraverso l’azione dei peer, che consente l’attivazione diretta degli studenti e delle studentesse.
I dati più recenti fotografano un incremento del disagio giovanile, con più casi di ritiro sociale, autolesionismo e disturbi psichiatrici. Da cosa dipende questo aumento e che ruolo ha avuto la pandemia?
La pandemia ha slatentizzato una serie di disturbi in soggetti psichicamente più fragili. Le scuole secondarie di secondo grado sono state le prime a chiudere e le ultime a riaprire completamente. Eppure l’adolescenza è una fase di espansione, in cui si ha bisogno di uscire dal nido, fare esperienze, costruire la propria identità attraverso il confronto con i pari: essere costretti in casa è stato, in molti casi, quanto di più innaturale potesse accadere (senza contare che per alcuni ragazzi le mura domestiche non rappresentano nemmeno un luogo sicuro).
Un altro fattore è l’uso smodato dei social: la sensazione è che più gli adolescenti sono connessi online, meno lo siano nella realtà. C’è un senso di solitudine, spesso latente, ma sempre più diffuso.
Quali sono gli obiettivi principali di “Nuove F-orme” e quali metodologie usa?
Gli obiettivi principali del progetto sono quelli di contribuire a prevenire le situazioni di disagio mentale prima che diventino disturbi conclamati, lavorando sul contesto classe in modo sinergico per renderlo un ambiente accogliente e di supporto, basato su modalità didattiche cooperative e non competitive. Al tempo stesso, si punta a rafforzare la rete scolastica e socio-sanitaria a sostegno degli adolescenti con malessere mentale, e ad attivare direttamente studenti e studentesse affinché diventino i primi agenti del cambiamento.
Le metodologie sperimentate sono state diverse e hanno agito in parallelo. Il rafforzamento della rete di supporto è avvenuto attraverso percorsi formativi accompagnati da un supporto metodologico esperto rivolto a educatori e insegnanti coinvolti in situazioni di educativa scolastica specialistica legate a diagnosi di disturbi mentali. Parallelamente, l’attivazione degli studenti è stata portata avanti tramite un’azione di peer education sul tema dell’antifragilità, che ha coinvolto quattro gruppi di ragazzi e ragazze nell’apprendimento di concetti e strumenti per il supporto tra pari.
Un elemento distintivo è la figura dell’educatore scolastico professionale. Qual è il suo ruolo e perché è così centrale nel progetto?
Molti dei disturbi mentali, soprattutto se in comorbilità, vengono certificati con la legge 104, quindi ci siamo collegati alla figura dell’educatore scolastico specialistico già presente nelle classi. L’Ufficio del Diritto allo Studio della Città Metropolitana di Torino, già da quattro anni, sta cercando di proporre un nuovo modello di educativa scolastica, dando maggiore rilevanza alla funzione di ponte dell’educatore tra lo studente e la classe, così da trasformare i fattori ambientali – sia fisici che relazionali – da potenziali barriere (materiali e immateriali) a facilitatori di un reale processo di inclusione.
In questa prima azione, quindi, la figura dell’educatore è risultata fondamentale: nelle situazioni segnalate dall’équipe di neuropsichiatria dell’Ospedale Regina Margherita, il bisogno principale era un supporto psico-educativo prima ancora che didattico, pena il fallimento del reinserimento scolastico.
Altro punto chiave è la peer education. Come si coinvolgono gli studenti in questo processo e quali benefici porta questo metodo?
La peer education ha coinvolto volontariamente quattro gruppi di studenti e studentesse, provenienti da quattro scuole secondarie di secondo grado, in un percorso per loro inedito e stimolante, fatto di acquisizione di competenze ma anche di espressione e confronto alla pari sulle fragilità. Questo approccio si è dimostrato particolarmente efficace nell’attivare i ragazzi e nel creare un contesto costruttivo e propositivo, in cui potersi esprimere, far emergere idee e provare a realizzarle insieme. I benefici sono molteplici: per i peer, che sviluppano competenze utili anche nel futuro e lavorano su di sé e sulle proprie relazioni, ma anche per tutti coloro che vivono la ricaduta tra pari, potendo acquisire indirettamente le stesse competenze e sperimentare nuove attività e occasioni di confronto.
Il gioco dedicato al tema dell’anti-fragilità e tra le attività del progetto più originali. Qual è il suo obiettivo e in che modo può essere utilizzato concretamente?
Il kit didattico sull’antifragilità, co-ideato dai partner di progetto insieme ai peer educators, ha l’obiettivo di offrire uno strumento che faciliti il confronto tra pari sulle fragilità e aiuti a sviluppare la capacità di individuare risorse in ogni situazione, allenando al pensiero positivo e costruttivo.
L’utilizzo del gioco consente di affrontare questo processo in modo ludico e attivante. Dopo la fase di sperimentazione, l’obiettivo è perfezionare il kit e diffonderlo nelle scuole secondarie di secondo grado del territorio, così da proseguire il percorso sperimentale – monitorando il suo utilizzo e raccogliendo apposite schede di valutazione – e offrire a educatori e docenti uno strumento concreto per affrontare le situazioni di fragilità che emergono in classe.
Ci sono già segnali incoraggianti o storie di successo che potete condividere?
Il momento più significativo che ho vissuto personalmente è stato quello della formazione-supervisione. Un piccolo gruppo di 40 persone, provenienti da 10 scuole diverse e composto da docenti ed educatori, ha avuto modo di confrontarsi sulle singole situazioni, sotto la guida delle neuropsichiatre infantili dell’ospedale Regina Margherita e delle pedagogiste di Eclectica+ e della Città Metropolitana. Il clima che si è creato è stato davvero di comunità, con un forte senso di sollievo nel non sentirsi più soli o isolati di fronte a un banco improvvisamente vuoto, o a un adolescente profondamente in difficoltà, che a sua volta – nel gioco di specchi della relazione educativa – si sente solo e incompreso.
La supervisione funziona molto perché lo sguardo del neuropsichiatra, che conosce l’intera storia clinica del soggetto, riesce a illuminare anche i momenti più critici, attribuendo loro un significato completamente diverso: quelli che altrimenti verrebbero vissuti come fallimenti da docenti ed educatori, vengono invece rivalutati come successi, seppur difficili e insperati.
In una scuola, ad esempio, una studentessa non ha retto il reinserimento in classe ed è voluta tornare alla scuola in ospedale. La dott.ssa Anichini ha fatto notare che, intanto, anche solo pochi giorni di presenza in aula sono stati un primo aggancio, che ora permetterà all’educatore scolastico di continuare il lavoro iniziato anche in ospedale. Inoltre, il fatto che la studentessa abbia riconosciuto una propria difficoltà – legata a una forte tendenza al perfezionismo – è già di per sé un grande risultato.
In un’altra scuola, una studentessa non riesce a entrare in classe: si è quindi costruito un progetto di “accoglienza sulla soglia”, che le consente di restare a scuola svolgendo altre attività in segreteria o in biblioteca. I docenti, all’inizio, erano perplessi e si chiedevano che senso avesse. Ma per la sua neuropsichiatra è stato un altro successo insperato, perché prima quella studentessa non voleva nemmeno uscire di casa.
In questo contesto si attiva anche un confronto costante con i colleghi di altre scuole: ci si scambia domande, esperienze, strategie – “Tu cosa hai fatto in una situazione simile?”, “Com’è la tua classe?”, “Che risorse possiamo attivare?” – e tutto questo rende il lavoro di gruppo un generatore di senso. È in questo clima che i vissuti di morte, impotenza e isolamento si trasformano in calore, vita e condivisione, in quella che potremmo definire una vera e propria “alchimia emotiva”.
Il percorso si sviluppa come una ricerca-azione, che ci ha permesso, incontro dopo incontro, di riprogettare e adattare le attività nelle classi e gli appuntamenti di rete sulle singole situazioni, attraverso metodi partecipativi che si sono dimostrati efficaci fin dall’inizio.
Abbiamo inoltre dato la possibilità di richiedere, per ogni studente, un consiglio di classe online dedicato con le neuropsichiatre di riferimento.
Il progetto si basa su una rete di partner istituzionali e del terzo settore. Quanto è importante questa sinergia per affrontare il disagio giovanile e in che modo il supporto della Fondazione CRT ha contribuito concretamente alla sua realizzazione?
Penso che l’ente pubblico abbia il dovere di mettersi al servizio della comunità scolastica, diventando un attivatore di sinergie territoriali tra pubblico e privato e cercando, per quanto possibile, di offrire risposte che siano di sistema e basate su una rete multidisciplinare. Solo ottimizzando e mettendo insieme le risorse disponibili – pubbliche e private – si può affrontare un tema complesso come quello del disagio giovanile.
In questo senso, il supporto della Fondazione CRT è stato fondamentale: senza di esso non ci sarebbe stata né la parte di formazione-supervisione, né quella legata alla peer education con l’ideazione del kit didattico.
Pensate che questo modello possa essere replicato in altri territori o su scala più ampia?
Assolutamente sì, come referente di un servizio finanziato con fondi pubblici non inizio mai dei progetti che non siano a sistema, sostenibili sul lungo periodo ed esportabili. Nella seconda edizione del progetto vorremmo esportarlo all’interno di tutte le scuole secondarie di secondo grado con una formazione organizzata territorialmente in presenza e la possibilità di lasciare il kit didattico alla singola scuola. L’ASL TO4 e l’ufficio scolastico d’ambito territoriale (ex provveditorato) hanno dato l’adesione per aiutarci a diffondere questo modello.
Se poteste mandare un messaggio agli adolescenti che stanno vivendo un momento di difficoltà, cosa direste loro?
Faremmo la stessa domanda che viene posta nel gioco Mezzo Pieno: quale aspetto positivo e quale risorsa possiamo trovare in questo momento di difficoltà? Cerchiamoli insieme!